Quanto è sostenibile l'Italia? Gli ultimi dati a disposizione

21 ottobre 2022 / Elena Masia

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Qual è il livello di sostenibilità del nostro paese? E quali sono i territori più a rischio nel processo di transizione? Gli ultimi dati dal rapporto Italia Sostenibile 2022 di Cerved Italia.

Il 13 settembre scorso è uscito il rapporto Italia Sostenibile 2022 di Cerved Italia, l’information provider che aggrega dati proprietari e pubblici, e li combina secondo modelli analitici per riportare la fotografia del nostro stato di sostenibilità nei confronti del resto d’Europa (più Regno Unito e Norvegia).

L’intento, rivolto alle filiere produttive e alle istituzioni, è duplice: diffondere una cultura di responsabilità verso l’ecosistema esterno e promuovere la misurazione degli impatti secondo un approccio data-driven.

Rispetto alla prima edizione, il documento aggiunge unanalisi della distribuzione territoriale del rischio fisico e di transizione, anche considerando i criteri della tassonomia e i nuovi obblighi di misurazione in capo alle banche. Si individuano, così, quei territori che potrebbero pagare il prezzo più alto per la conversione ecologica.

Fatta questa premessa, vediamo cosa dice il report più nel dettaglio.

L'Italia a confronto

L’analisi, condotta tenendo in considerazione centinaia di variabili (raggruppate come da Tavola A), riporta una fotografia a chiaroscuro: pur mantenendo un buon livello di sostenibilità ambientale, il nostro paese paga lo scotto di performance economiche e sociali negative, raggiungendo, dunque, solo il 15mo posto (su 29 nazioni analizzate) per indice di sostenibilità generale. A rallentare la crescita, le regioni meridionali (Tavola 35) che faticano a tenere il passo di un Nord che, se preso singolarmente, si colloca “immediatamente a ridosso dei migliori cinque paesi monitorati: Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Germania e Finlandia.

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Il Report sottolinea come la nostra debolezza sia soprattutto di natura economica-produttiva, dovuta essenzialmente ad una limitata capacità di innovazione che, però, come sappiamo, è un fattore fondamentale per la transizione green. Nel 2020, il volume degli investimenti è stato pari solo al 17,8 % del PIL, contro una media europea del 21,9%; così come per l’ambito “ricerca e sviluppo” si è registrato un valore inferiore alla media europea di quasi un punto percentuale. Il fronte economico nazionale è indebolito, inoltre, da un basso livello di digitalizzazione e dall’incapacità di attrarre investimenti esteri. Punto forte resta pur sempre l’export, che nel 2020 genera ricavi pari al 30% del PIL.

Per quanto riguarda l’ambito sociale (fortemente correlato a quello economico), l’Italia mantiene una posizione di merito alle voci assistenza sociale e sanità, quest’ultima scomposta nei due gruppi di variabili: “condizione di salute della popolazione” (ovvero aspettativa di vita, rischio obesità, depressione etc.) e “strutture sanitarie” (quota medici, posti letto, tecnologie avanzate etc.). Al di sotto della media, invece, i risultati relativi ai seguenti indicatori: fragilità delle famiglie - più di un quarto a rischio povertà già nel 2019 -, formazione del capitale umano e sistema sicurezza/giustizia (ultimo posto in classifica per il nostro paese, considerando i fattori: reati, sistema carcerario, efficienza della giustizia e corruzione).

Dopo i valori sfavorevoli registrati a livello economico e sociale, l’indice di sostenibilità ambientale ci vede primeggiare al nono posto (media UE al 15esimo), con un Centro Italia che ottiene il miglior risultato a livello nazionale e un Mezzogiorno che, pur “rimanendo al di sotto della media europea”, presenta “un divario molto più ridotto rispetto ai ritardi misurati nelle aree economica e sociale”. In particolare, sono più bassi delle media europea i livelli di inquinamento atmosferico, con un calo, ad esempio, delle emissioni industriali del 25,4 %, registrato dal 2011 al 2020 (superiore di dieci punti rispetto alla media del continente).

Tasto dolente resta, invece, il valore – negativo - legato all’indice di sostenibilità idrogeologica e sismica, imputabile alle perdite economiche dovute ai disastri naturali (come alluvioni, frane e terremoti) e alla voce di spesa nazionale impiegata per la protezione ambientale. Rispetto alla prima componente, e considerando il periodo compreso tra il 1980 e il 2020, l’Italia ha “sostenuto danni corrispondenti al 5,4 % del PIL” contro una media europea del 3,6%, spendendo per la protezione meno degli altri paesi. L’Italia, infatti, insieme a Spagna, Grecia, Malta e Slovacchia, presenta un livello di sostenibilità ambientale “lievemente superiore alla media, pur con un basso indice di investimenti e innovazione”.

Per concludere l’analisi sulle performance di sostenibilità e limitando il perimetro alle sole province italiane, si conferma l’ampio divario che esiste tra il Nord e il Sud del paese, pur con delle eccezioni. Analizzando, inoltre, le diciassette variabili che compongono il modello di misurazione, Cerved restituisce una mappa che ripartisce il territorio nazionale in sette profili caratterizzati da differenti priorità d’azione (cfr. Tavola C).

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Quali rischi per l'Italia

Se da un lato, la Banca Centrale Europea ha introdotto - nell’ambito del Meccanismo di Vigilanza Unico - il monitoraggio dei rischi legati al cambiamento climatico e alla transizione green, dall’altro, sono entrati a pieno regime i criteri di vaglio tecnico della tassonomia ambientale (e presto sociale).

Come sottolinea il report, “la maggiore attenzione nei confronti dei rischi climatici e ambientali e la necessità di integrare queste dimensioni nell’ambito del quadro prudenziale vigente, avranno presto riflessi nella formulazione delle strategie aziendali, nell’attuazione dei sistemi di governance e nella gestione dei rischi, con impatti significativi sull’attività di valutazione e di screening degli istituti di credito”.

A fronte di tutto questo, qual è l’attuale livello di rischio del sistema impresa Italia?

Per prima cosa, Cerved ha analizzato l’esposizione di imprese e immobili alle diverse componenti del rischio fisico, definito come l’impatto economico-finanziario derivante da eventi metereologici estremi - o mutamenti graduali del clima-, da eventi sismici o da fenomeni di degrado ambientale.

Incrociando le informazioni relative alle sedi delle società italiane con le mappe dell’ISPRA e dell’INGV, risulta che il 19,3%, delle 5,3 milioni di imprese iscritte a registro, è a rischio fisico “alto” o “molto alto”; 10,5 % se si considera il rischio associato al solo climate change (soprattutto per le aree del Nord-Est e della Liguria).

Per quanto riguarda, invece, il rischio di transizione (verso un modello net zero), si rileva che le società che operano in attività a rischio alto o molto alto - ovvero appartenenti a quei settori che “necessitano di ingenti investimenti per riconvertire la produzione o per ristrutturare profondamento gli impianti produttivi – sono pari al 17,6% del nostro sistema impresa (soprattutto ditte individuali e aziende agricole).

Allo stesso tempo, del campione di 682 mila società di capitali analizzato (dati 2020), si registra che oltre la metà delle imprese a rischio di transizione ecologica alto o molto alto (57mila) non ha strutture finanziarie adeguate ad avviare il cambiamento. Se si considerano, poi, i territori del Sud, la scarsità di risorse finanziarie si accompagna spesso a incapacità di attrarre investimenti e a bassi livelli di sostenibilità sociale.

Come per l’analisi di sostenibilità, anche in questo caso, la situazione presenta luci e ombre e “il principale motivo di ottimismo è riconducibile alla continua crescita della finanza sostenibile”: l’Italia, nel 2021, è stata il quarto paese europeo per prestiti/obbligazioni green e gli asset investiti in fondi sostenibili sono stati il 28,6% del totale.

E così, in qualche modo, si conclude il report come lo si è iniziato, perché ad alimentare gli investimenti e ad attrarre i capitali sono le misurazioni credibili di sostenibilità, basate su dati quantitativi a “garanzia” di minor rischio finanziario e creditizio.

Per ora, ad essere coinvolte in questo processo di valutazione e monitoraggio sono solo le grandi realtà; la vera sfida sarà coinvolgere il prima possibile anche le PMI, non solo perché costituiscono la catena di fornitura dei grandi gruppi - e quindi sono chiamate a rispondere a obblighi di compliance informativa-, ma anche perché ciò che oggi per loro rappresenta un’attività onerosa e di difficile applicazione, potrebbe rappresentare, ben presto, un’opportunità di resilienza trasformativa (e in fondo è quello che ci si auspica con il “criterio di proporzionalità” previsto dalla nuova Corporate Sustainability Reporting Directive - CSRD).

 

Elena Masia
AUTORE

Elena Masia

Considero l’impresa un sistema aperto, in relazione con il territorio e le istituzioni; un luogo ideale dove poter sviluppare progetti e percorsi utili a garantire lo sviluppo di un business etico, innovativo e sostenibile.