Di norma, in questi casi tra i documenti approvati in fase istruttoria non si trova un Piano di gestione delle terre, redatto in conformità al DM 161/12 o al più recente DPR 120/17, ma documenti tecnici che trattano sotto diversi aspetti la gestione dei materiali di scavo e che, se analizzati congiuntamente, concorrono a definire in modo chiaro il rispetto delle condizioni da osservare per poter utilizzare i materiali di scavo come sottoprodotti ai sensi dell’art. 184 bis del T.U. Ambiente 152/2006, sottraendoli così alla gestione in regime di rifiuti, che riporto per memoria:
- Punto 1 “la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione (…) il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto”;
- Punto 2 “è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato”;
- Punto 3 “la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento”;
- Punto 4 “l’ulteriore utilizzo è legale ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.
Senza pretendere di delineare un elenco esaustivo, nei diversi progetti che ho analizzato le informazioni sulla gestione dei materiali di scavo sono rinvenibili nei seguenti elaborati:
- Relazione generale;
- Relazione geotecnica;
- Relazione di cantierizzazione, che spesso è accompagnata dalla planimetria dei cantieri e della viabilità di servizio e che riporta anche l’indicazione dei siti di deposito e delle discariche;
- Caratterizzazione ambientale del suolo interessato dagli scavi;
- Bilancio terre e indicazioni sulla gestione delle materie di scavo (reimpiego interno, reimpiego esterno, rifiuto), generalmente riportato come parte della relazione tecnica o di cantierizzazione.
Ciò premesso, la documentazione idonea alla corretta gestione delle terre e rocce da scavo deve essere valutata “caso per caso” e non può trovare applicazione una linea guida di carattere generale.
Tuttavia, al fine di meglio comprendere quale possa essere la documentazione tecnica da produrre in caso di revisione progettuale, si ritiene utile proporre un excursus normativo che parte dalla lontana Legge Lunardi ed arriva sino ai giorni nostri, e che consente di definire anche il possibile iter amministrativo che tale documentazione tecnica deve seguire ai fini dell’approvazione.
La normativa in materia di terre e rocce da scavo dalla L. 443/2001 al DPR 120/2017
Precedentemente all’uscita del decreto Ronchi (D.Lgs. 22/1997) che comportò un completo riordino delle norme precedenti in tema di rifiuti, le terre e rocce da scavo erano considerate rifiuti da sottoporre al recupero secondo quanto previsto dai vari regolamenti usciti tra gli anni 1990-96. Il recupero era previsto solo in regime semplificato.
Il decreto Ronchi, prima versione, all’articolo 7, comma 3, annoverava tra i rifiuti speciali i rifiuti inerti derivanti dall’attività di demolizione, costruzione e i rifiuti pericolosi che derivavano da attività di scavo, chiarendo all’articolo 8 (comma 2, lettera c) che erano esclusi dal campo di applicazione del decreto “i materiali non pericolosi derivanti da attività di scavo“.
Quest’ultimo comma venne, però, successivamente soppresso a causa di una prima procedura di infrazione da parte della Commissione UE nel decreto Ronchi bis (D.Lgs. 389/1997) dando luogo, in assenza di una chiara definizione della pericolosità dei rifiuti in generale e delle terre e rocce in particolare, ad una attuazione problematica della norma.
Successivamente, con la circolare dell’Ufficio Legislativo del Ministero dell’Ambiente (28/7/2000) a cui seguì la Legge 93/2001 (articolo 10, comma 1) le terre e rocce da scavo vennero escluse dal regime giuridico dei rifiuti se “…destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione degli inquinanti inferiori ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti“. Nella circolare la dizione per tale requisito era invece “…. inquinanti inferiori ai limiti di cui al D.M. 471/99 per siti con destinazione a verde pubblico, privato e residenziale” con ulteriore complicazione nell’applicabilità della norma.
La Legge 21 dicembre 2001 n. 443 (cd Decreto Lunardi), che forniva l’interpretazione autentica degli articoli 7 e 8 del decreto Ronchi e delle successive modifiche, nella versione modificata dalla legge comunitaria 306 dell’ottobre 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee), consentiva di escludere dal regime giuridico dei rifiuti “le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dall’attività di escavazione, perforazione e costruzione…” purché si rispettassero contemporaneamente le due condizioni sintetizzate di seguito:
1. presenza di inquinanti nei limiti di legge verificata sulla composizione media dell’intera massa:
- i limiti erano quelli del DM 471/99, all. 1, tab.1, colonna B, salvo limiti più restrittivi per destinazioni urbanistiche diverse dall’uso previsto dalla tab. 1, colonna B, del DM 471/99 (uso commerciale e industriale);
- il rispetto dei limiti di cui sopra poteva essere verificato, in accordo alle previsioni progettuali, anche sui siti di destinazione dei materiali 11.
2. effettivo utilizzo: l’utilizzo doveva avvenire senza trasformazioni preliminari e secondo le modalità previste nel progetto VIA o, se non sottoposto a VIA, secondo le modalità di progetto approvate dall’Autorità Amministrativa previo parere ARPA.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – “Codice ambientale” l’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti venne regolamentata dall’art. 186 secondo il quale “Le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente… sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3.3.
Anche le successive disposizioni applicative sviluppate a livello regionale individuarono nella necessaria presenza di un progetto autorizzato dall’Autorità amministrativa la condizione necessaria per l’esclusione di detto materiale dalla classificazione di rifiuto.
In sintesi, il D. lgs. 152/06:
- introduce l’obbligo del progetto di riutilizzo;
- prevede un parere espresso di ARPA in merito al riutilizzo (nel caso Veneto la necessità del parere è sottolineata dalle linee guida in materia della Regione Veneto DGRV del 23/04/2004 n. 1126 e dalla DGRV 80/2005 che prevede un esplicito parere di ARPAV alla proposta di riutilizzo, successivamente sostituita dalla DGRV 2424/2008 che prevedeva la predisposizione di una indagine ambientale a dimostrazione dell’idoneità all’uso delle terre);
- conferma l’obbligo di verifica del livello di contaminazione (DM 471/99);
- individua la possibilità di altre destinazioni oltre al reinterro, riempimento, etc.;
- individua la possibilità di stoccaggio provvisorio in un altro sito.
L’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, ha abrogato ed integralmente sostituito il testo dell’articolo 186, D. lgs 152/2006; la regione Veneto di conseguenza ha adottato una nuova deliberazione, la n. 2424 del 8 agosto 2008.
Il novellato articolo 186, comma 1, D.Lgs. 152/2006, sancisce che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti, possano essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati purché siano rispettati nella sostanza i criteri per la definizione dei sottoprodotti medesimi.
In altri termini, il D.Lgs. 4/2008 consente di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati dai quali le terre da scavo sono state originate.
L’entrata in vigore del cosiddetto ”quarto correttivo” (D. Lgs. n 3 dicembre 2010, n. 205) al Codice ambientale, non dissolve le incertezze che da anni caratterizzano la disciplina delle terre e rocce da scavo.
Nel testo, infatti, l’abrogazione dell’art. 186, contenente la disciplina specifica delle terre e rocce, resta legata al decreto ministeriale di cui all’art. 184bis, comma 2, che sarà approvato quasi 2 anni dopo (D.M. n. 161/2012).
La novità introdotta dal D.Lgs. n. 205/2010 in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modifica pesantemente il precedente testo normativo, in particolare con l’introduzione degli articoli 184 bis e 184 ter.
L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183, comma 1, lett. “qq”, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso.
Per il tema di cui stiamo trattando, è fondamentale richiamare il comma 1 lett. “b”, secondo il quale deve essere certo “che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”.
Infine, l’art. 39, comma 4, sancisce che “Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all’articolo 184-bis, comma 2, è abrogato l’articolo 186”.
La previsione di cui al citato art. 39 del D.Lgs. 205/2010 si limita a disporne un’abrogazione necessariamente differita (perché subordinata all’entrata in vigore del Regolamento), con l’unica finalità di scongiurare le ripercussioni negative che si sarebbero prodotte nel settore edilizio e dei lavori pubblici (e in particolare sui lavori in corso per la realizzazione di infrastrutture pubbliche di particolare rilevanza) per l’improvvisa cessazione di una disciplina specifica – relativa alle condizioni di origine, composizione e impiego dei materiali da scavo, posta dall’art. 186 – non ancora sostituita dal Regolamento.
Detto articolo 39 non avrebbe potuto, in definitiva, disporre l’abrogazione immediata delle prescrizioni dell’art. 186, a far data dal 27 dicembre 2010, in assenza del nuovo decreto ministeriale che ne avesse rimpiazzato, in toto, le regole amministrative e tecniche, alla luce del sopravvenuto art. 184-bis (sulla nuova nozione di “sottoprodotto” nella cui categoria “generale” le terre e rocce sono state ricondotte, come una sua “specifica” tipologia).
In altri termini, l’articolo 39, del D.Lgs. 205/2010 si palesa come la tipica norma che, disponendo sull’efficacia di una disposizione in vigore (dal 2006), si è preoccupata di individuare un regime transitorio volto a garantire un graduale passaggio dall’abrogando art. 186 alla nuova disciplina del D.M. n. 161/2012, mantenendo in vita, sino al 6 ottobre 2012, la norma precedente.
Nel corso del 2012, e prima del DM 161/12, vengono emanati ulteriori provvedimenti:
- l’art 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, il quale dispone che “…. L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”;
- le modifiche apportate, a tale disposizione, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 (v. comma 1-ter dell’art 49 che detta: “All’articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010. n. 205. il primo periodo è sostituito dal seguente: Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, a 1, è abrogato l’articolo 186”).
Dopo la pubblicazione del D.M. 10 agosto 2012, n. 161 “ Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo”, il legislatore è tornato più volte sul tema dei materiali da scavo, limitando l’applicabilità del DM 161/2012 con l’emanazione di successivi decreti e leggi fino all’entrata in vigore, dal 21 agosto 2013, della legge n° 98 del 9 agosto 2013 di conversione, con modifiche, del decreto legge 21 giugno 2013, n° 69, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia” (cd “decreto del fare”).
Infatti, dopo le modifiche introdotte con la citata legge 98/2013, l’applicabilità del DM 161/2012 è stata limitata ai materiali da scavo provenienti da attività od opere soggette a VIA o ad AIA, come recita il comma 2bis dell’art. 184bis del D.Lgs. 152/06 (ora abrogato dall’art. 31 del D.P.R. n. 120 del 2017).
Il 22 agosto 2017 è entrato in vigore il DPR 13 giugno 2017, n. 120, ovvero il nuovo regolamento sulla “disciplina semplificata delle terre e rocce da scavo”, il quale abroga sia il DM n. 161/2012, che l’art. 184-bis, comma 2bis del TUA, nonché gli artt. 41, c.2 e 41-bis del DL n. 69/2013.
Il DPR, che consta di 31 articoli e 10 allegati, si occupa altresì dei materiali da scavo gestiti come rifiuti e di quelli derivanti da attività di bonifica.
Per piani e progetti approvati prima dell’entrata in vigore del DPR 120/2017, l’art. 27 prevede che “I piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente, che si applica anche a tutte le modifiche e agli aggiornamenti dei suddetti piani e progetti intervenuti successivamente all’entrata in vigore del presente regolamento. Resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione.”
Analoga disposizione era contenuta anche nell’art. 15 del DM 161/2012 il quale prevedeva che “i progetti per i quali è in corso una procedura ai sensi e per gli effetti dell’articolo 186, del decreto legislativo n. 152 del 2006, possono essere assoggettati alla disciplina prevista dal presente regolamento con la presentazione di un Piano di Utilizzo ai sensi e per gli effetti dell’articolo 5. Decorso il predetto termine senza che sia stato presentato un Piano di Utilizzo ai sensi dell’articolo 5, i progetti sono portati a termine secondo la procedura prevista dall’articolo 186 del decreto legislativo n. 152 del 2006. In ogni caso, dall’applicazione del presente comma non possono derivare oneri aggiuntivi per la spesa pubblica”.
Considerata la durata media degli iter amministrativi dei progetti delle opere infrastrutturali, entrambi gli articoli mirano a garantire che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dai nuovi regolamenti.
Quindi… che normativa si applica???
Preso atto della novellata disposizione normativa, il DPR n. 120/2017, a far data dalla sua entrata in vigore, ovvero dal 22.08.2017, costituisce l’unico riferimento normativo in materia di terre e rocce da scavo ai fini della loro qualifica come sottoprodotti e non rifiuti ai sensi dell’art. 184-bis del D.Lgs. n. 152/2006.
Trovano pertanto abrogazione le previgenti norme costituite:
- dal D.M. 161/2012,
- dagli artt. 41, comma 2 e 41-bis del D.L. 69/2013, convertito con modificazioni con legge 98/2013
- dall’art. 184-bis, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 152/2006.
Quanto all’ex art. 186 del D.Lgs. n. 152/2006 (e relative modalità applicative previste in Veneto dalla D.G.R.V. n. 2424/2008), la sua abrogazione ha coinciso con l’entrata in vigore del D.M. 161/2012, ovvero con il 06.10.2012.
Tuttavia, per i progetti di opere per i quali le procedure di gestione delle terre e rocce da scavo sono attive alla data di entrata in vigore del regolamento, rimangono invariate le modalità gestionali in uso, comprese le procedure per le loro modifiche e aggiornamenti, salvo che i soggetti interessati non optino per il passaggio alle disposizioni del nuovo regolamento, come sopra richiamato, ai sensi dell’art. 27.
Sull’applicabilità delle diverse norme in materia di terre e rocce viene in aiuto la circolare prot. 353596 del 21 agosto 2017 della Regione Veneto, nella quale si precisa che “è facoltà dei soggetti che a vario titolo (proponenti, progettisti, direzione lavori) hanno prodotto la documentazione prevista dal D.M. 161/2012 o dall’art. 41 -bis del D.L.69/2013 convertito con legge 98/2013, di avvalersi dell’assoggettamento alla disciplina e alle modalità di gestione previste dal nuovo regolamento.”
La Circolare prosegue spiegando che “nel caso in cui i soggetti di cui sopra, che abbiano in corso una procedura di gestione delle terre e rocce da scavo, non rilevino l’opportunità di modificare il proprio progetto per adeguarlo al nuovo regolamento, potranno proseguire la gestione delle terre e rocce da scavo secondo le modalità già in uso con la previgente disciplina fino al termine dei lavori previsti dal progetto medesimo.”
In tal caso la normativa previgente si deve applicare anche a tutte le eventuali modifiche e aggiornamenti ai piani e progetti di utilizzo.
Di particolare utilità è il richiamo ai procedimenti anteriori al DM 161/2012 per i quali continua ad applicarsi l’art. 186 del D.Lgs. n. 152/2006, per il quale, nell’ordinamento regionale, il riferimento è costituito dalla D.G.R.V. 2424/2008 e s.m.i.
LEGGI LA CIRCOLARE 353596/2017!
Materiale riutilizzato in sito – art. 185
Una riflessione merita il riutilizzo del materiale in sito di cui all’art. 185 del D. Lgs. 152/06 e la relativa clausola di esclusione.
In proposito, qualora il progetto preveda il riutilizzo integrale del terreno scavato allo stato naturale all’interno dello stesso cantiere di produzione, si applica la clausola di esclusione di cui all’art. 185, purché il materiale sia non contaminato e riutilizzato allo stato naturale. Il requisito dell’impiego “allo stato naturale” deve essere interpretato nel senso di assenza di trattamento prima dell’impiego del suolo e del materiale scavati (impiego “tal quale”).
L’assenza di contaminazione del suolo, obbligatoria anche per il materiale allo stato naturale, impone la verifica del rispetto dei limiti di cui alla tabella 1 Allegato 5 Titolo V parte IV del TUA e quindi un prelievo ed analisi dei materiali (eventuali).
È compito dell’Autorità competente alla valutazione del progetto di “costruzione” definire quale livello di accertamento richiedere, ovviamente in funzione della storia del sito (dall’auto dichiarazione nel caso di siti palesemente non contaminati a delle caratterizzazioni più o meno complesse in funzione della tipologia di sito e della rilevanza dello scavo).
In ogni caso non può essere richiesto un Piano di Utilizzo in quanto non pertinente. Se in fase di progettazione esecutiva o prima dell’inizio dei lavori viene accertata la non idoneità del materiale questo deve essere gestito ai sensi della normativa sui rifiuti (Parte IV D.Lgs. 152/2006).
Per mero dovere di cronaca si evidenzia che in tema di riutilizzo in sito, qualora la produzione di terre e rocce avvenga nell’ambito della realizzazione di opere sottoposte a VIA, il DPR 120/2017 con l’art. 24 ha introdotto la presentazione di un “Piano preliminare di utilizzo in sito delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti” al fine di valutare la sussistenza di requisiti di reimpiegabilità in fase di stesura dello Studio di Impatto Ambientale. A riguardo, l’art. 27 comma 3 precisa che “Le disposizioni contenute nell’articolo 24 si applicano, su richiesta del proponente, anche alle procedure di VIA già avviate purché non sia già stato emanato il provvedimento finale.”
Fondo naturale
Le terre da scavo i cui valori superano i limiti tabellari ma sono più bassi dei valori di fondo naturale definiti dalle Agenzie per la Protezione dell’ambiente, possono essere considerati non contaminati purché siano riutilizzati:
- nella stessa unità deposizionale/fisiografica così come definita nel volume pubblicato da ARPA, o in un’altra unità con valori di fondo maggiori o uguali;
- in aree ad uso commerciale e industriale qualora i valori riscontrati siano inferiori alle CSC di colonna B.
In proposito il DM 161/2012 riportava tra le definizioni quella di “Ambito territoriale con fondo naturale” che è stata aggiornata dal DPR 120/2017: “porzione di territorio geograficamente individuabile in cui può essere dimostrato che un valore di concentrazione di una o più sostanze nel suolo, superiore alle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC) di cui alle colonne A e B della Tabella 1 dell’allegato 5, alla parte IV, del D.Lgs. 152 del 2006 e successive modificazioni sia ascrivibile a fenomeni naturali legati alla specifica pedogenesi del territorio stesso, alle sue caratteristiche litologiche e alle condizioni chimico fisiche presenti”.
Il set di parametri analitici da ricercare è definito in base:
- alle possibili sostanze ricollegabili alle attività antropiche svolte sul sito o nelle sue vicinanze;
- ai parametri caratteristici di eventuali pregresse contaminazioni, di potenziali anomalie del fondo naturale, di inquinamento diffuso, nonché di possibili apporti antropici legati all’esecuzione dell’opera.
In sostanza, qualora nelle terre e rocce da scavo le concentrazioni dei parametri di cui alla precedente Tabella 1 superino le concentrazioni soglia di contaminazione di cui alle colonne A e B (Tab. 1, all. 5, Titolo V, parte IV,del D.Lgs. n.152/2006), è fatta salva la possibilità che le concentrazioni di tali parametri vengano assunte pari al valore di fondo naturale esistente.
A tal fine, in fase di predisposizione del piano di utilizzo, il proponente segnala il superamento di cui sopra ai sensi dell’art. 242 del d. lgs. 152/2006 e contestualmente presenta all’ ARPA un piano di indagine per definire i valori di fondo naturale da assumere.
Il piano di indagine può fare riferimento ai dati pubblicati e validati da ARPA relativi all’area oggetto di indagine.
Opere sottoposte a VIA: approvazione da parte dell’Autorità competente, silenzio-assenso e inizio dei lavori
Per le opere sottoposte a procedura di VIA diventa fondamentale definire la fase in cui ci si trova ovvero se la procedura è in corso, se è stato adottato il provvedimento conclusivo o se sono previste modifiche sostanziali dell’opera.
Infatti, nel caso di opere sottoposte a VIA, il Piano di Utilizzo di cui al DM 161/12 e al DPR 120/17 diventa uno dei suoi documenti istruttori, incardinandosi in un iter procedurale sovraordinato.
In ordine agli Enti che possono risultare Autorità Competente, se sussistono i requisiti per sottoporre l’opera a VIA, la competenza passa all’autorità che adotta il provvedimento conclusivo, che può essere la Provincia o la Regione o anche il Ministero in base al tipo e alle caratteristiche dell’opera, regolamentate anche da leggi regionali.
Diversamente, nel caso in cui il provvedimento di VIA sia già stato adottato, l’autorità che approva il Piano di Utilizzo è la stessa che approva il progetto (o le sue varianti) poiché il provvedimento conclusivo di VIA è stato già adottato.
In caso di silenzio da parte dell’Autorità competente, nel caso in cui l’opera che genera i materiali di scavo sia già stata precedentemente autorizzata, vale l’applicazione di una sorta di silenzio/assenso: trascorsi 90 giorni dalla presentazione del Piano di Utilizzo (P.d.U.), il proponente può iniziare le operazioni di scavo e di gestione del materiale secondo il P.d.U. presentato.
Tale possibilità non trova adeguata espressione nel caso in cui l’iter amministrativo sia fondato sull’art. 186 del D.Lgs. 152/06 e, nel caso del Veneto, sulla DGRV del 8 agosto 2008, n. 2424.
Varianti sostanziali o non sostanziali?
Sempre nell’ambito della procedura di VIA, uno dei nodi da sciogliere è quello di comprendere se le modifiche progettuali che coinvolgono le terre e rocce da scavo sono sostanziali o meno.
In proposito, ritengo che nel caso delle infrastrutture lineari siano non sostanziali le modifiche relative a:
- diversa destinazione dei materiali di scavo (es. da discarica a riutilizzo in altro sito o viceversa);
- trattamento prima dell’impiego del suolo e del materiale scavati (es. stabilizzazione a calce);
- modifiche di modesta entità al volume del materiale scavato.
Per contro, nel caso di opere in cui venga proposta una modifica del profilo plano altimetrico, la variante potrebbe essere considerata sostanziale e quindi potrebbe essere opportuno il confronto con l’autorità competente in materia di VIA.
In proposito, va segnalato che il D. Lgs. 16 giugno 2017, n. 104 “Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 9 luglio 2015, n. 114 ”, in vigore dal 21 luglio 2017, ha modificato gli allegati alla parte II del D. Lgs. 152/06 e ss.mm.ii. Si segnala inoltre che le modifiche normative introdotte con il D.Lgs. 104/2017 alla parte seconda del Testo unico dell’ambiente hanno previsto che fossero adottate, su proposta del SNPA, delle linee guida nazionali e norme tecniche per l’elaborazione della documentazione finalizzata allo svolgimento della valutazione di impatto ambientale. Tale documentazione è stata prodotta con le
LEGGI IL DECRETO LEGISLATIVO 104/2017!
In particolare, per quanto riguarda le strade urbane ed extraurbane le modifiche sono così riassumibili:
Il procedimento di verifica di assoggettabilità, attivato allo scopo di valutare se un progetto può avere un impatto significativo e negativo sull’ambiente e se pertanto deve essere assoggettato al procedimento di VIA, si applica sostanzialmente a tre casi:
- nel caso di nuovi progetti di opere, impianti o interventi, le cui dimensioni superano quelle fissate dall’allegato IV della parte II del D.Lgs. n. 152/2006;
- per progetti di modifica o ampliamento di opere, impianti o interventi che presentano soglie dimensionali al di sotto di quelle indicate dall’allegato IV della parte II del D. Lgs. n. 152/2006 nel rispetto dei criteri definiti dal d.m. n. 52/2015;
- nel caso di progetti di modifica o ampliamento sostanziali di opere, impianti o interventi già autorizzati o realizzati o in fase di realizzazione indipendentemente dalle soglie dimensionali previste dall’allegato III e IV della parte II del D.Lgs. n. 152/2006, accertata dal Servizio la significatività dell’impatto.
Da segnalare che, con l’entrata in vigore del D.Lgs. del 16 giugno 2017 n.104, è stata introdotta la nuova procedura di valutazione preliminare ai sensi dell’art.6, comma 9 del D.Lgs. 152/2006” relativamente alle tipologie di opere elencate negli allegati II, II -bis , III e IV alla Parte Seconda del D.Lgs. 152/2006 “Per le modifiche, le estensioni o gli adeguamenti tecnici finalizzati a migliorare il rendimento e le prestazioni ambientali dei progetti”, che può essere un altro strumento di cui si avvale il proponente.
Tale previsione normativa ha delle analogie, quanto meno negli obiettivi, con il quesito di assoggettabilità alle procedure di VIA utilizzato dai competenti uffici della Provincia Autonoma di Trento, la quale, riconoscendo un quadro normativo complesso e la possibile difficoltà da parte del proponente nell’individuare in quale tipologia progettuale ricade una determinata opera o quale procedura (verifica o VIA) è necessario attivare, ha previsto una procedura informale per la richiesta di un parere al Servizio VIA provinciale.
Tornando al novellato art. 6, comma 9 del D.Lgs. 152/06, in pratica, nel caso di modifiche o estensioni di opere esistenti, vi è la possibilità di richiedere all’autorità competente un pre-screening, ovvero una “valutazione preliminare del progetto” per l’individuazione della procedura da avviare.
Nel testo si precisa che il proponente per avvalersi di tale facoltà deve trasmettere adeguati elementi informativi tramite apposite liste di controllo. Lo strumento metodologico di riferimento da adottare per l’elaborazione del documento è la Guida della Commissione Europea “Guidance on EIA – Screening” (2001), aggiornata poi nel 2017 con la “EIA Guidance – Screening” (2017) che fornisce indirizzi operativi per affrontare la procedura di screening.
In tali linee guida viene indicato come affrontare lo screening, attraverso l’utilizzo di checklist che supportano il processo decisionale e consentono di giungere motivatamente, sulla base dei criteri dell’Allegato III della direttiva VIA, ad una valutazione conclusiva in merito alla sussistenza o meno di effetti ambientali potenzialmente significativi negativi connessi.
Per la verifica può essere utilizzata una checklist che prende in considerazione tutti i criteri di selezione individuati nell’Allegato III della direttiva VIA (Allegato V alla Parte Seconda del D. Lgs. 152/2006 e s.m.i.) e, nella sua compilazione, si è tenuto conto di tutti i possibili fattori che possono determinare l’insorgenza di impatti ambientali potenzialmente significativi.
Tale lista di controllo è conforme a quanto stabilito con “Decreto direttoriale n. 239 del 3 agosto 2017, attuativo delle disposizioni di cui all’art. 25 comma 1 del D.Lgs. 104/2017 di riforma della VIA, che individua i contenuti della modulistica necessaria ai fini della presentazione delle liste di controllo per la verifica preliminare, prevista dall’art. 6, comma 9 del D.Lgs. 152/2006”.
LEGGI LE LINEE GUIDA PER LA REDAZIONE DELLA VIA – SCREENING!
LEGGI IL DECRETO DIRETTORIALE 239/2017!
Il parere delle Agenzie per la Protezione dell’Ambiente
Le ARPA nell’ambito della gestione delle terre e rocce da scavo forniscono supporto tecnico all’autorità competente all’approvazione del progetto e del Piano di gestione/utilizzo secondo una prassi consolidata da tempo.
Il ruolo delle ARPA non è però quello di approvare il Piano di gestione/utilizzo, bensì quello di supportare l’Autorità incaricata della sua approvazione.
Tale ruolo è stato meglio specificato dal DM 161/12 e poi dal DPR 120/2017 il quale prevede che, all’art. 10, comma 2, nel caso di “procedura ordinaria” di valutazione del Piano di Utilizzo (PdU), l’Autorità competente possa richiedere all’Arpa un parere in merito al PdU “con riferimento alla tipologia di area in cui viene realizzata l’opera e alla sua eventuale conoscenza di pregressi interventi antropici non sufficientemente indagati nell’area di intervento”. Secondo la citata norma anche il proponente può chiedere ad ARPA la validazione preliminare del Piano di Utilizzo (art. 9 comma 8) prima di presentare il Piano all’Autorità competente, oppure, dopo aver trasmesso il Piano all’A.C., può chiedere l’esecuzione preventiva dei controlli da parte di ARPA.
In altri termini, la valutazione del PdU spetta all’Autorità competente che, in alcune circostanze e con costi a carico del proponente, può richiedere l’intervento dell’Arpa. La richiesta di parere ad Arpa si ritiene possa essere limitata ad alcuni casi quali, ad esempio, la presenza di fenomeni di contaminazione in atto, la conoscenza di eventuali pregressi interventi antropici, la presenza di particolari vincoli.
Rimane in capo all’Autorità Competente la verifica sulla completezza della documentazione presentata, sulle firme, sulle formule di autocertificazione e ogni altro aspetto amministrativo connesso all’approvazione del PdU.
Il DPR 120/17, rispetto al precedente decreto, chiarisce e disciplina il Piano di Utilizzo (Art. 10, 11 e 12) rispettivamente per le terre e rocce conformi alle CSC, per quelle conformi ai valori di fondo naturale (in questo caso è obbligatorio per il proponente agire in contradditorio con ARPA per la definizione dei valori di fondo) e per quelle prodotte in un sito oggetto di bonifica (in questo caso solo ARPA può eseguire la verifica del rispetto delle CSC).
Inoltre il Decreto introduce il “Controllo equipollente” (Art. 13), ovvero la possibilità di effettuare le attività di controllo e verifica, su richiesta del proponente del piano, non solo da parte dell’ARPA o APPA competente, ma anche da parte di altri organi dell’amministrazione pubblica o enti pubblici che svolgono attività tecnico-scientifica in materia ambientale o sanitaria dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti all’Agenzia di protezione ambientale territorialmente competente.
Ad ogni buon conto va ricordato che il ruolo delle ARPA nella valutazione tecnica dei Piani è stato previsto sin dalla Legge 31 ottobre 2003, n.306 dell’ottobre 2003 (cd. legge comunitaria 2003) che all’art. 23 modificava l’articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (cd legge Lunardi).
Delibera 54/2019 SNPA sulla gestione delle terre e rocce da scavo
Un ulteriore approfondimento delle tematiche del DPR 120/2017 rispetto alla rivalorizzazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti è stato reso disponibile il 9 maggio 2019 dal Consiglio del Sistema nazionale protezione ambiente (Ispra + Arpa), il quale ha redatto le “Linee guida per l’applicazione della normativa sulla gestione delle terre e rocce da scavo ” (Delibera 54/2019).
Il provvedimento, in particolare, si pone i seguenti obiettivi:
- analizzare il DPR e evidenziarne le criticità operative;
- definire un approccio comune, con particolare riferimento ai compiti di monitoraggio e controllo del sistema nazionale protezione ambiente (SNPA);
- definire dei criteri comuni per la programmazione annuale delle ispezioni, dei controlli, dei prelievi e delle verifiche delle Arpa.
Tra i diversi temi approfonditi nella Delibera e di particolare interesse per quanto riguarda le possibilità di riutilizzo delle terre e rocce da scavo, vi sono la corretta gestione dei terreni contenenti matrici di riporto e le normali pratiche industriali, con particolare attenzione al trattamento a calce (trattamento esplicitamente ammesso tra le operazioni di normale pratica industriale elencate nell’allegato 3 del DM 161/2012, ma che non compare in forma esplicita all’interno del DPR 120 /2017. Le linee guida definiscono a tal proposito le opportune condizioni in cui è possibile utilizzare il trattamento a calce come normale pratica industriale).