Il nuovo marchio Made Green in Italy

Il tema della comunicazione ambientale nel mercato attuale offre opportunità competitive per le aziende che la includano nella propria strategia. Il 13 giugno 2018 sono entrate in vigore le regole per ottenere la nuova certificazione "Made Green in Italy" che riguarda l'impronta ambientale dei prodotti. Scopri i dettagli nell'articolo che segue!
Tempo stimato di lettura: 12 minuti

Cosa significa Made Green in Italy?

Lo schema Made Green in Italy è uno strumento certificativo, inserito nel contesto delle etichette e dichiarazioni ambientali di III tipo, a oggi coerenti con le indicazioni della norma IS0 14025.

I contenuti dell’art. 21 Legge 221/2015

L’art. 21 della Legge 221/2015 “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali” ha previsto l’istituzione dello schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti, denominato, appunto, Made Green in Italy.

Allo schema, che si basa sull’analisi del ciclo di vita e definisce l’impatto ambientale di un prodotto attraverso alcuni indicatori, possono aderire i produttori di Made in Italy che vogliano fregiarsi di un’elevata qualificazione ambientale.

Con la messa a punto e l’implementazione dello schema e del regolamento previsti dall’art. 21 della Legge n. 221/2015, si intendono perseguire i seguenti obiettivi:

  • promuovere l’adozione di tecnologie e disciplinari di produzione innovativi, in grado di garantire il miglioramento delle prestazioni dei prodotti e, in particolare, la riduzione degli impatti ambientali che i prodotti hanno durante il loro ciclo di vita, anche in relazione alle prestazioni ambientali previste dai criteri ambientali minimi di cui all’articolo 68 bis del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
  • rafforzare l’immagine, il richiamo e l’impatto comunicativo che distingue le produzioni italiane, associandovi aspetti di qualità ambientale, anche nel rispetto di requisiti di sostenibilità sociale
  • rafforzare la qualificazione ambientale dei prodotti agricoli, attraverso l’attenzione prioritaria alla definizione di parametri di produzione sostenibili dal punto di vista ambientale e della qualità del paesaggio
  • garantire l’informazione, in tutto il territorio nazionale, riguardo alle esperienze positive sviluppate in progetti precedenti, e in particolare nel progetto relativo allo schema di qualificazione ambientale dei prodotti che caratterizzano i cluster (sistemi produttivi locali, distretti industriali e filiere), sviluppato con il protocollo d’intesa firmato il 14 luglio 2011 tra il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il Ministero dello Sviluppo Economico e le Regioni Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Lazio, Sardegna, Marche e Molise

In altri termini, con questa iniziativa il Legislatore ha inteso compiere un passo importante per evidenziare come i prodotti italiani possano essere considerati non solo di elevata qualità, ma anche prodotti verdi.

Il DM Ambiente 21 marzo 2018 n. 56: le regole per la certificazione

Il DM Ambiente n. 56 del 21/03/2018 definisce le modalità di funzionamento dello schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti Made Green in Italy.

Il produttore che intenda certificare i propri prodotti, deve presentare apposita domanda al Ministero dell’Ambiente; se i prodotti rispondono alle caratteristiche di legge, può ottenere il logo Made Green in Italy (la cui licenza d’uso dura 3 anni).

Il regolamento si applica ai prodotti classificabili come Made in Italy, ai sensi della normativa italiana vigente, così come specificamente definita per le singole categorie di prodotto previste dallo schema.

Per definire le regole e i requisiti – obbligatori e facoltativi – necessari per la conduzione di studi relativi all’impronta ambientale per una specifica categoria di prodotto, il Ministero dell’Ambiente rilascia infatti delle indicazioni metodologiche, le cosiddette RCP (Regole di Categoria di Prodotto), che hanno una validità di 4 anni.

In pratica, l’adesione allo schema Made Green in Italy è limitata ai prodotti classificabili come Made in Italy, per i quali esiste una RCP (Regola di categoria di prodotto) in corso di validità.

Entro 30 giorni dall’acquisizione della richiesta di adesione allo schema volontario, il Ministero concede la licenza d’uso dell’apposito logo per 3 anni.

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Ai sensi dell’articolo 8 del D.M. 56/2018, per quanto riguarda gli appalti pubblici, il Ministero dell’Ambiente utilizza nei Criteri Ambientali Minimi (CAM), relativi alle nuove categorie di prodotti, nonché nei CAM già approvati e pubblicati, l’adesione allo schema Made Green in Italy come strumento di verifica del rispetto delle specifiche tecniche laddove pertinenti e riguardanti il ciclo di vita del prodotto.

Dopo aver introdotto le principali novità normative, è il caso di affrontare il tema delle etichette ambientali, per comprendere meglio di cosa di tratta.

I tipi di marchi ecologici ed etichette ambientali

Secondo la classificazione e descrizione delle etichette e delle dichiarazioni ambientali della norma UNI EN ISO 14020:2002, si distinguono 3 tipologie di dichiarazioni ecologiche. Eccole di seguito.

Etichettatura ecologica di Tipo I (UNI EN ISO 14024:2001): l’etichettatura si fonda su un sistema multi-criteria che considera l’intero ciclo di vita del prodotto, certificata e gestita da una terza parte indipendente: l’ente certificatore. Le informazioni fornite sono genericamente sintetiche per una comunicazione business to consumer.

Etichettatura ecologica di Tipo II (UNI EN ISO 14021:2016): consiste in un’autodichiarazione (green claim) ambientale da parte di produttori, importatori o distributori dei prodotti, senza l’intervento di un organismo di certificazione indipendente e utilizzate dagli stessi produttori come strumento di informazione ambientale.

All’etichettatura ecologica di Tipo III è dedicato il prossimo paragrafo.

Etichette ambientali tipo 3 e PRC

Le etichette ecologiche di III tipo (UNI EN ISO 14025:2010) si riferiscono alla dichiarazione ambientale di prodotto (EPD – DAP) – uno strumento di informazione sulle performance ambientali di tipo quantitativo di un prodotto, basato sugli impatti individuati secondo la metodologia LCA – che garantisce l’oggettività della valutazione in ottica business to business.

Il processo di sviluppo EPD è riassumibile nel seguente schema.

Per essere in grado di soddisfare le aspettative del mercato, le EPD devono essere preparate rispettando dei requisiti metodologici molto specifici e rigorosi, soprattutto per poter permettere il confronto tra dichiarazioni di prodotti analoghi.

Le regole di calcolo, che tutti devono eseguire, sono note come Product Category Rules (PCR), in italiano note come Regole di Categoria di Prodotto (RCP): si tratta di indicazioni metodologiche rilasciate dal gestore dello schema che definiscono regole e requisiti – obbligatori e facoltativi – necessari alla conduzione di studi relativi all’impronta ambientale per una specifica categoria di prodotto.

Per ottenere la Dichiarazione Ambientale di Prodotto (EPD), l’azienda deve innanzitutto verificare la disponibilità delle Regole di Categoria di Prodotto (Product Category Rules -PCR) per il tipo di prodotto/servizio per il quale vuole richiedere la Certificazione, così come riportato all’Art. 5. “Richiesta di adesione allo schema” del DM 56/2018.

Gli articoli 3 e 4 del Decreto riguardano l’iter di sviluppo delle RCP, in cui sono elaborati i benchmark e le classi di prestazione, corrispondenti a ciascun prodotto rappresentativo.

Elemento caratterizzante delle RCP, rispetto ai contenuti delle PEFCR europee, è la presenza di requisiti addizionali obbligatori e facoltativi.

Lo sviluppo della proposta di RCP deve essere conforme alla raccomandazione 2013/179/UE nonché alle Linee guida PEF. Tale sviluppo si fonda in particolare su uno studio di impronta ambientale per ciascun prodotto rappresentativo, individuato per la specifica categoria di prodotto.

Ai fini della proposta, dell’approvazione e della pubblicazione, i soggetti proponenti la RCP inviano al gestore dello schema la richiesta relativa a una specifica categoria di prodotto, utilizzando il modulo A (allegato I del Decreto).

Product Environmental Footprints (PEF) e Organization Environmental Footprints (OEF)

Il concetto di impronta ecologica (o impronta ambientale) è stato introdotto nel 1990 da Mathis Wackernagel e William Rees, due ricercatori dell’Università della British Columbia. È divenuto di pubblico dominio con la pubblicazione del libro “Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth”, pubblicato nel 1996.

L’impronta ecologica si è rivelata un indicatore importante, dalla grande forza comunicativa, in quanto consente di monitorare l’utilizzo delle risorse naturali disponibili sul nostro pianeta e, indirettamente, di promuovere azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile.

A partire dal 1999, il WWF aggiorna periodicamente il calcolo dell’impronta ecologica nel suo Living Planet Report. L’idea di mettere a punto un’impronta ambientale nasce dalla considerazione che l’attuale modello di sviluppo, specie nei Paesi industrializzati, comporta un consumo di risorse superiore a quelle che il Pianeta Terra è in grado di fornire e/o di rigenerare.

L’impronta ambientale misura la superficie, in termini di terra e acqua, ci cui la popolazione umana ha bisogno per produrre le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti, con la tecnologia disponibile.

Per quanto riguarda l’impronta ambientale di prodotti (PEF) ed organizzazioni (OEF), la Commissione Europea ha recepito questo approccio e ha emanato la Raccomandazione 2013/179/UE, relativa all’uso di metodologie comuni per misurare e comunicare le prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita dei prodotti e delle organizzazioni.

La Commissione punta a ridurre la molteplicità dei metodi e delle etichette, nell’interesse sia dei fornitori che degli utilizzatori delle informazioni in materia di prestazioni ambientali. Per raggiungere tale obiettivo, raccomanda l’uso dei metodi per determinare l’impronta ambientale agli Stati membri, alle imprese private e alle associazioni, ma anche agli operatori di sistemi di misurazione o comunicazione delle prestazioni ambientali e agli investitori.

La Raccomandazione 2013/179/UE, all’Allegato 1, riporta i potenziali ambiti di applicazione per le metodologie OEF e PEF. Vediamoli nel dettaglio.

PEF – Product Environmental Footprints

Gli ambiti di applicazione della metodologia sono:

  • ottimizzazione dei processi nel ciclo di vita di un prodotto
  • sostegno alla progettazione del prodotto che riduca al minimo gli impatti ambientali nel corso del ciclo di vita
  • comunicazione delle informazioni relative alle prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita dei prodotti da parte delle singole imprese o mediante programmi su base volontaria (ad esempio mediante la documentazione che accompagna il prodotto, siti internet e app)
  • programmi relativi alle dichiarazioni ambientali, in particolare garantendo una sufficiente affidabilità e completezza delle dichiarazioni
  • programmi che creano reputazione, dando visibilità ai prodotti che calcolano le proprie prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita
  • identificazione degli impatti ambientali significativi, per stabilire criteri per i marchi di qualità ecologica
  • incentivi basati sulle prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita, ove opportuno

OEF – Organization Environmental Footprints

I potenziali ambiti di applicazione e risultati della metodologia OEF sono:

  • ottimizzazione dei processi lungo tutta la catena di approvvigionamento della gamma di prodotti di un’organizzazione
  • comunicazione delle prestazioni ambientali nel ciclo di vita alle parti interessate (ad esempio mediante relazioni annuali, nelle relazioni sulla sostenibilità, come risposta ai questionari degli investitori o dei portatori di interessi)
  • programmi che creano reputazione, dando visibilità alle organizzazioni che calcolano le proprie prestazioni ambientali nel ciclo di vita o alle organizzazioni che le migliorano nel tempo (ad esempio di anno in anno)
  • programmi che richiedono la comunicazione delle prestazioni ambientali nel ciclo di vita
  • mezzi per fornire informazioni sulle prestazioni ambientali nel ciclo di vita e sul conseguimento degli obiettivi nel quadro di un sistema di gestione ambientale
  • incentivi basati sul miglioramento delle prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita, calcolate in base alla metodologia OEF, ove opportuno

Life Cycle Assessment (LCA)

La Life Cycle Assessment (LCA), letteralmente valutazione del ciclo di vita, è uno strumento utilizzato per analizzare l’impatto ambientale di un prodotto, di un’attività o di un processo, lungo tutte le fasi del ciclo di vita. L’analisi è eseguita attraverso la quantificazione dell’utilizzo delle risorse (input quali energia, materie prime e acqua) e delle emissioni nell’ambiente (immissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo), associate al sistema oggetto di valutazione.

L’analisi identifica tutti i processi coinvolti nel ciclo di vita di ciascun componente e del packaging di un prodotto.

Prende in considerazione i seguenti elementi:

  • estrazione e fornitura materie prime
  • produzione
  • imballaggio
  • trasporto dal sito di produzione al punto vendita
  • utilizzo
  • smaltimento del prodotto e del packaging

Per la valutazione quantitativa degli impatti, è necessario applicare i principi e gli strumenti del Life Cycle Assessment (LCA), secondo quanto stabilito dalla UNI EN ISO 14040:2006 “Gestione ambientale – Valutazione del ciclo di vita – Principi e quadro di riferimento”, entrata in vigore il 26 ottobre 2006.

La norma UNI 14040 descrive i principi e il quadro di riferimento per la valutazione del ciclo di vita (LCA), comprendendo:

  • la definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione della LCA
  • la fase di inventario del ciclo di vita (LCI)
  • la fase di valutazione dell’impatto del ciclo di vita (LCIA)
  • la fase di interpretazione del ciclo di vita
  • la rendicontazione e la revisione critica della LCA
  • le limitazioni della LCA
  • le correlazioni tra le fasi della LCA
  • le condizioni per l’utilizzo delle scelte dei valori e degli elementi facoltativi

L’analisi del ciclo di vita si svolge attraverso le 4 fasi che seguono.

  1. Definizione degli obiettivi e campo di applicazione: vengono definiti gli obiettivi dello studio, l’unità funzionale (misura o quantità di prodotto presa come riferimento per l’analisi dell’impatto), i confini del sistema (ampiezza del sistema considerato)
  2. Inventario: è la fase in cui vengono quantificati gli input e le relative emissioni, per ciascuna fase del ciclo di vita
  3. Valutazione degli impatti: le informazioni ottenute in fase di inventario vengono classificate e aggregate nelle diverse categorie di impatto
  4. Interpretazione dei risultati: le informazioni e i risultati ottenuti vengono interpretati, per poi tradursi in raccomandazioni e interventi per la riduzione dell’impatto ambientale.

In pratica, studiando nel dettaglio ogni aspetto relativo a ciascun componente del prodotto, la LCA permette di individuare le fasi maggiormente impattanti e che necessitano di interventi.

L’applicazione della LCA fornisce importanti indicazioni sia per il miglioramento dei prodotti esistenti che per lo sviluppo di nuovi prodotti.

Infine, rappresenta un supporto fondamentale allo sviluppo di schemi di etichettatura ambientale:

  • nella definizione dei criteri ambientali di riferimento per un dato gruppo di prodotti (etichette ecologiche di tipo I Ecolabel)
  • come principale strumento per ottenere una Dichiarazione Ambientale di Prodotto (Environmental Product Declaration – EPD), ossia un’etichetta ecologica di tipo 3

Come più volte sottolineato, i risultati della LCA possono essere utilizzati per confrontare prodotti simili oppure diversi ma con la stessa funzione, per richiedere certificazioni ambientali e per comunicare la prestazione ambientale del prodotto.


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Stefano Reniero

Come Amministratore di NEXTECO guido lo sviluppo di nuovi servizi e supporto i miei colleghi nelle sfide più impegnative, mettendo a loro disposizione la mia esperienza e le mie competenze. La mia passione è interpretare le esigenze emergenti e trasformarle in proposte di valore concrete per i nostri clienti.
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Stefano Reniero

Come Amministratore di NEXTECO guido lo sviluppo di nuovi servizi e supporto i miei colleghi nelle sfide più impegnative, mettendo a loro disposizione la mia esperienza e le mie competenze. La mia passione è interpretare le esigenze emergenti e trasformarle in proposte di valore concrete per i nostri clienti.

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