Volendo raccontare cosa succede quanto si realizza un bene attraverso un determinato ciclo produttivo potremmo sinteticamente dire che si produce un “prodotto”, cioè il bene stesso per cui è stata pensato il processo, ed uno “scarto”, ovvero un materiale di risulta o uno sfrido. Se lo “scarto” può essere reimpiegato nello stesso o in altri processi produttivi lo chiamiamo “sottoprodotto”; se invece è necessario disfarsene lo chiamiamo “rifiuto”.
Il “sottoprodotto”, per essere realmente tale, deve essere reimpiegato senza nessun trattamento aggiuntivo, se non quelli previsti dalla normale pratica industriale ovvero con trattamenti analoghi a quelli che si effettuano sulle materie prime.
Il “rifiuto” può essere avviato a “smaltimento” oppure ad un processo di “recupero o di riciclaggio” che lo trasformano in “non rifiuto” (End of Waste, in passato materia prima seconda – MPS)…leggi il nostro post sull’End of Waste!
Tutto chiaro direte voi… beh non proprio dico io!!!
Di seguito alcuni spunti per orientarsi nella giungla dei “sottoprodotti”…
La definizione di sottoprodotto la si deve inizialmente all'articolo 5 della Direttiva 2008/98/CE il quale ha sostanziato diverse proposte avanzate a livello comunitario, in sede di revisione della Direttiva Rifiuti, che sono ben sintetizzate nella comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio in materia di rifiuti e di sottoprodotti COM (2007) 59 del 21.2.2007.
La comunicazione COM (2007) 59 affronta la questione di quando un sottoprodotto vada considerato un rifiuto, al fine di chiarire la situazione giuridica per gli operatori economici e le autorità competenti, descrivendo “Problematica è ad esempio la distinzione tra i materiali che non sono l'obiettivo primario di un processo di produzione, ma che possono essere considerati sottoprodotti non assimilabili a rifiuti, e i materiali che devono invece essere trattati come rifiuti. In realtà non esiste una distinzione netta, ma piuttosto svariate situazioni tecniche con ripercussioni e rischi ambientali molto diversi, così come innumerevoli zone d'ombra. Pur tuttavia, per applicare la normativa ambientale occorre tracciare, caso per caso, una linea chiara tra le due situazioni giuridiche, stabilendo se il materiale di cui si tratta costituisce rifiuto o meno. È proprio tale distinzione che si è talvolta rivelata difficile a farsi.”
Ulteriori indicazioni sulla corretta applicazione della definizione di “sottoprodotto” sono state fornite dalla Commissione Europea nella “Guideline on interpretatation of key provisions of Dir. 2008/98/CE on waste” nella quale viene indicato come la definizione adottata nella direttiva tiene conto delle numerose sentenze sul tema sottoprodotto che la corte di giustizia europea ha emanato nel tempo.
Tra le motivazioni che hanno portato alla redazione della guida vi è la consapevolezza che “un'interpretazione troppo ampia della definizione di rifiuto impone alle aziende costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico. Un'interpretazione troppo restrittiva, al contrario, può tradursi in danni ambientali e pregiudicare l'efficacia della legislazione e delle norme comunitarie in materia di rifiuti.”
In Italia, la nozione di sottoprodotto è stata introdotta dal Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205 con il quale, accanto alla definizione di rifiuto, sono state individuate anche le condizioni in base alle quali una sostanza o un oggetto non sono da considerarsi tali.
Nello specifico l’articolo 183 “Definizioni” rimanda direttamente all’articolo 184-bis, commi 1 e 2, che fornisce una disciplina sostanziale del settore riporta la definizione di sottoprodotto alla sub lettera (qq) “[...] qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'articolo 184-bis, comma 2 [...]”.
L’articolo 184-bis, interamente dedicato alla nozione di sotto prodotto, si divide in 2 commi:
Il succitato articolo individua le seguenti condizioni necessarie per la sussistenza della qualifica di sottoprodotto:
Dalla lettura dell’elenco delle condizioni tassative alla base della qualifica di sottoprodotto, ne deriva che il sottoprodotto è tale se deriva da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante ma che, tuttavia, non costituisce lo scopo primario della produzione e che, sin dal momento della sua produzione, sia certo il suo riutilizzo.
Da sottolineare che se viene meno anche una sola delle condizioni sopra elencate, lo scarto di produzione deve essere assoggettato alla disciplina dei rifiuti, pena il rischio di pesanti sanzioni.
Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare 13 ottobre 2016, n. 264, sono stati adottati “Criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”.
La pubblicazione di questo decreto era stata preannunciata, almeno in parte, dal comma 2 dell’art. 184-bis del D.l.vo 152 in quale prevedeva che “[…] possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. All'adozione di tali criteri si provvede con uno o più decreti del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare […]”.
Di fatto come si legge all'art. 1 il D.M. 264 non si è limitato a “specifiche tipologie di sostanze o oggetti” ma partendo da un generico (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) ha individuato come finalità quella di “favorire ed agevolare l’utilizzo come sottoprodotti di sostanze ed oggetti che derivano da un processo di produzione e che rispettano specifici criteri […] definisce alcune modalità con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni generali di cui all'articolo 184 -bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”.
Prima di analizzare le modalità di cui parla l’art. 1 è bene soffermarsi sull’art. 2 “Definizioni” che introduce i concetti di:
L’art. 3 “Ambito di applicazione” precisa che il decreto si applica ai residui di produzione mentre sono esclusi “i prodotti, le sostanze e i materiali dei cui all’art. 185 del 152/06, i residui derivanti da attività di consumo”. Inoltre viene confermata la disciplina separata in materia di terre e rocce da scavo.
Con l’art. 4 “Condizioni generali” si entra nel cuore del Decreto dove al comma 2, rimandando agli articoli che seguono “[…] sono indicate alcune modalità con cui provare la sussistenza delle circostanze di cui al comma 1, fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto.”
Lo stesso articolo introduce 2 ulteriori novità:
Con gli articoli successivi il DM entra nel vivo!!! Si introducono i concetti di:
L’art. 5 individua gli elementi utili a documentare la certezza dell’utilizzo: tale requisito deve essere dimostrato a) dal produttore al momento della produzione del residuo e b) dal detentore al momento dell'impiego (figura probabilmente riconducibile all'utilizzare, ndr).
In questo articolo troviamo delle novità assolute:
Gli strumenti probatori indicati dal decreto sono la documentazione contrattuale e la scheda tecnica.
La presenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari (coloro i quali agevolano l’incontro tra produttore ed utilizzatore?) e gli utilizzatori costituisce elemento di prova della certezza del riutilizzo (comma 4). Tale circostanza era stata presa in considerazione dalla Comunicazione COM (2007) 59 quando afferma che “l'esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo”.
La possibilità di fornire la prova della sussistenza anche degli altri requisiti tramite la documentazione indicata è invece condizionata dallo specifico contenuto della stessa.
La predisposizione di una Scheda tecnica - peraltro non obbligatoria, ma facoltativa - contenente le informazioni indicate all’allegato 2 è necessaria ai fini di documentare la certezza dell’utilizzo e l’intenzione di non disfarsi del residuo in mancanza di rapporti o impegni contrattuali (comma 5).
La scheda tecnica deve consentire a) l'identificazione dei sottoprodotti dei quali è previsto l'impiego, b) l'individuazione delle caratteristiche tecniche degli stessi, c) l'individuazione del settore di attività o della tipologia di impianti idonei ad utilizzarli.
Le schede tecniche sono numerate, vidimate (dalle Camere di commercio territorialmente competenti) e gestite con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri IVA (comma 6). La scheda tecnica di cui contiene, tra l'altro, le informazioni necessarie a consentire la verifica delle caratteristiche del residuo e la conformità dello stesso rispetto al processo di destinazione e all'impiego previsto (art. 7, comma 2);
La scheda tecnica rappresenta, dunque, un elemento di ausilio sotto il profilo probatorio per coloro che intendano avvalersi delle procedure previste dal Regolamento.
In caso di cessione del sottoprodotto deve essere compilata la “Dichiarazione di conformità”, per assicurare la conformità dello stesso ai requisiti richiesti dalla legge ed alla scheda tecnica, della quale è necessario indicare gli estremi di riferimento.
L’art. 6 in materia di normale pratica industriale stabilisce al comma 2 che “Rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell’oggetto idonee a consentire e favorire, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare ad impatti complessivi negativi sull’ambiente”.
In ogni caso, le operazioni svolte sul residuo non devono essere necessarie a conferire allo stesso particolari caratteristiche sanitarie o ambientali che il residuo medesimo non possiede al momento della produzione, perché lo scopo della disposizione è quello di evitare che, inquadrando come “normale pratica industriale” un’attività (ad esempio, finalizzata a ridurre la concentrazione di sostanze inquinanti o pericolose), possano essere sostanzialmente eluse le disposizioni in materia di gestione dei rifiuti e le relative necessarie cautele ed autorizzazioni.
In proposito è opportuno fare ricorso agli orientamenti della Commissione sulla normale pratica industriale enunciati nel documento Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste emanato dalla Direzione Generale Ambiente della medesima Commissione nel Giugno 2012:
In estrema sintesi, secondo la Commissione Europea non è possibile individuare ex lege un trattamento di normale pratica industriale, salvo limitatissime eccezioni.
Tale orientamento appare ispirato dall'intenzione di evitare, in applicazione del principio di precauzione, che taluni trattamenti, potenzialmente applicabili a tutti i residui - quali sottoprodotti e rifiuti - vengano artatamente sottratti al regime dei controlli e delle restrizioni, previste per la gestione ordinaria dei rifiuti, solo perché inseriti in un elenco di operazioni esplicitamente qualificate anche come normale pratica industriale.
Pertanto, l’inclusione di ciascun trattamento tra le normali pratiche industriali non può essere basata sulla presenza dello stesso all’interno di un elenco positivo, ma deve essere fondata su una verifica, caso per caso, finalizzata a dimostrare se la medesima attività sia qualificabile, in concreto, come normale pratica industriale, ovvero come attività di trattamento di rifiuti.
L’art. 8 disciplina il deposito e la movimentazione del sottoprodotto che devono assicurare il mantenimento delle caratteristiche del residuo necessarie a consentirne l’impiego.
Fermo restando che rifiuti e sottoprodotti devono essere tenuti separati tra loro, si concorda sul fatto che fino all’effettivo utilizzo, il sottoprodotto deve essere depositato e movimentato nel rispetto di specifiche norme tecniche (se disponibili o forse è bene avere che dia qualcosa in merito il sistema di gestione), evitando spandimenti accidentali, contaminazione delle matrici ambientali e prevenendo o minimizzando la formazione di emissioni diffuse e la diffusione di odori.
In materia di deposito va ricordato che già la Comunicazione COM (2007) 59 prevedeva che “Allo stesso modo, se il materiale è depositato per un periodo indeterminato in attesa di un riutilizzo eventuale ma non certo, occorre considerarlo un rifiuto per tutto il tempo in cui è depositato.”
Il Ministero dell’Ambiente è intervenuto sul tema dei sottoprodotti con la circolare 30 maggio 2017, n. 7619 per fornire chiarimenti per un’uniforme applicazione ed univoca lettura del D.M. 264/2016.
Data la complessità della materia e dell’assenza di prassi interpretative, il Ministero ha ritenuto necessario predisporre un Allegato tecnico-giuridico di approfondimento che tratta in modo esaustivo le condizioni stabilite dall’art. 184-bis del D.L.vo 152/06 per la sussistenza del concetto di “sottoprodotto” e che prende in considerazione articolo per articolo i contenuti del D.M. 264/2016.
Nella circolare si sottolinea che il decreto:
Il Decreto è stato pensato dall'Amministrazione, in attuazione dell’art. 184-bis, comma 2, come strumento a disposizione di tutti i soggetti interessati (operatori, altre Amministrazioni, organi di controllo, etc.) per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la qualifica di un residuo di produzione come sottoprodotto anziché come rifiuto. La sua finalità non è, dunque, quella di irrigidire la normativa sostanziale del settore, quanto, piuttosto, quella di consentire una più sicura applicazione di quella vigente.